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Portamento distinto, aspetto inappuntabile, modi affabili, eloquio garbato, un’aura vagamente crepuscolare, come se si fosse materializzato uscendo dalle pagine di una poesia di Gozzano. Al primo impatto, ti destabilizzava alla grande. Lo vedevi e te lo figuravi arrendevole, compiacente, sempre sottotono, mai sopra le righe, fin dimesso… Ma in quelle palestre di vita che sono le redazioni di un piccolo giornale di provincia, a poco a poco ne scoprivi la vera essenza, e imparavi. Apprendevi che gestire una testata locale è un mestiere con le sue regole severe e precise, diverse, diametralmente opposte a quelle dei ”giornaloni” e che scimmiottarli significava snaturarsi e perdere appeal nei confronti dello zoccolo duro dei tuoi lettori fidelizzati. Che richiedono rispetto e, soprattutto, ascolto. Arte nella quale Giancarlo Torti era un autentico maestro. La fotografia che vedo nella mia testa lo rappresenta nel bugigattolo a pianterreno (chiamarlo ufficio sarebbe troppo pomposo) in contrada della Torre, chino sulle sue carte alle quali era costretto ad avvicinarsi sempre di più perché il tempo è tiranno e la vista ne patisce lo scotto. Suonavano alla porta e lui si riscuoteva, si ricomponeva e si preparava ad ascoltare: che fosse una nonna che voleva un trafiletto per congratularsi con il nipote neolaureato, uno storico o un poeta locale in cerca di una recensione alla sua recente performance in biblioteca, un cittadino incavolato perché riteneva che un suo diritto fosse stato violato, o un politicante locale che intendeva far trapelare qualche sapida notizia sugli amministratori del momento, lui entrava in comunione, si posizionava sulla lunghezza d’onda dell’interlocutore, lo trattava con educata gentilezza, e si poneva all’ascolto, lo lasciava parlare. E da lì nascevano le storie, pronte per essere raccontate. Che fossero quisquilie delegabili all’ultimo dei ragazzini venuti a farsi le ossa al giornale, che fossero questioni delicate da trattare con esperta pazienza, che fossero probabili scoop, lui trattava tutti con il medesimo senso di partecipazione, e tutti uscivano dal colloquio consci di avere fatto la cosa giusta, rivolgendosi a lui. E tu, osservavi e imparavi.

Nevina Andreta